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Ritratto di Bouli Lanners

di 

- Pittore, scenografo, attore dalla filmografia impressionante, regista sognatore, Bouli Lanners si racconta senza esitazioni, lo sguardo è chiaro

La sua silhouette sullo schermo suggerisce un carattere dalla forte tempra. In una parola, una vera presenza cinematografica, divenuta sempre più familiare negli ultimi anni. Concede: "Sì, sono un po' bulimico". Pittore, scenografo, attore dalla filmografia impressionante, regista sognatore, Bouli Lanners si racconta senza esitazioni, lo sguardo è chiaro, le parole sono franche.

Alle Belle Arti di Liegi, già dal secondo anno gli chiedono di essere più presente o di andarsene. Se ne va. Ha 20 anni e già lavora come scenografo per la RTBF. Poi approda a Snuls nel 1989, la trasmissione cult di Canal + Belgio dove, a furia di ridere dietro alle scene, comincia a scrivere, recitare e a conquistare una "piccola popolarità perché la trasmissione era molto seguita". Come attore colleziona una lunga serie di telefilm e si annoia presto. Ma "guardavo come funzionava, la sincronizzazione, il montaggio… Imparavo il mestiere di regista annoiandomi a fare telefilm!". Seguono molti cortometraggi, molte parti secondarie al cinema. Con gli amici Gérard Andrien e Stefan Liberski, crea il Festival de Kanne de Belgique. "Ho cominciato a fare i miei film così", a ogni edizione. Su una imbarcazone che si sposta da Kanne a Liegi e che porta fino a Bruxelles, montano e progettano "dei film di meno di 10 minuti realizzati da persone che non lo fanno mai. Partiamo dal concetto dell'arte grezza, che al cinema può dare delle cose divertenti, a volte anche molto toccanti". In pittura come al cinema si ritrova nell'arte grezza. "Non ho fatto l'accademia né una scuola di cinema. Sono autodidatta!".

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Bouli Lanners è nato "veramente fra tre frontiere" del Belgio, dell'Olanda e della Germania. Suo padre lavorava alla dogana. Descrive il Belgio come uno spazio fantomatico, "un paese di transito, di passaggio, che lo diventa sempre di più servendo da deposito alle merci che lo attraversano". Voleva girare Ultranova [+leggi anche:
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in Scope per "transcendere le bruttezze che ci sono in questi luoghi e fare qualcosa di bello e molto triste". Nella sua cittadina, c'era poco accesso ai cinema, "andavo al cinema quando facevo visita a mia nonna, ma ho scoperto il cinema molto tardi". Le sue prime emozioni in pellicla risalgono ad alcuni telefilm di Wenders visti sui canali tedeschi. E soprattutto risalgono a "un signore che passava con un proiettore 16 mm due o tre volte all'anno" nel suo collegio e che, un giorno, scambiando per sbaglio le bobine proiettò Mon Oncle di Jacques Tati. Si annoiavano tutti e io mi domandavo 'ma cos'è questa roba?' e sono rimasto sconvolto. Ho sognato per molti giorni" di farlo, in silenzio: "Non lo confessavo a me stesso, ma era presente, nascosto nell'inconscio. Il sogno tornava preiodicamente. Mi ricordo che un anno mi è stato presentato un tipo che aveva fatto un corto in pel-li-co-la! Un faraone, un dio sceso in terra!".

Con Ultranova, ha la sensazione di fare il suo mestiere. Sente la stessa tranquillità nella scrittura e nella pittura, "due approcci da grandi solitari" che rendono "estremamente recettivi". Sì, l'odore "dell'olio di lino" gli manca, l'ha un po' dimenticato, lui che ha cominciato a dipingere all'età di 14, 15 anni. Ma al cinema, sguazza in tutto quello che gli piace: narrazione, recitazione, il set... "Adoro il set!", ripete molte volte. Le persone, i camion, la confusione, i luoghi strani dove normalmente non ci si ferma mai… Descrive il film come una pittura dove tutto è disposto "con piccoli tocchi". "Le prime due settimane di riprese, applicavo il mio decoupage ed era davvero uno schifo. Poi ho lasciato perdere. Forse era il mio ultimo film, non volevo rimorsi". Riscrive la sceneggiatura, inventa de personaggi per gli attori che lo "colpiscono": "Non ho cercato di adeguare l'attore alla scrittura. Al contrario, il personaggio diventa più ricco perché è più vero". Finita la paura, "se trovavo tutto bello, lo approfondivo. Non parto dai concetti, ma dalle immagini o dalle emozioni. Come in pittura".

Nel 1999, Travellinckx, il suo primo cortometraggio, raccontava la storia di un uomo partito per filmare i luoghi cari al padre in fin di vita. Bouli non lo dice, ma è la sua storia. Due anni più tardi realizza Muno, su un episodio razzista in un paesino. "Mi fa paura lo svilimento dei rapporti umani, mi sembra che il nostro mondo vada in questa direzione." Silenzioso e essenziale, Ultranova ci traghetta in un Belgio lunare, con personaggi che sofforno il mal d'amore, i piedi per terra e la testa altrove, sull'orlo di una 'overdose da vita da cretini'". Un film in cui avrebbe tolto ogni realismo sociale per conservarne che l'effetto, l'essenziale, "le persone e la loro paura di vivere, la paura di dire che si ama". Una pratica ricorrente ogni famiglia, anche la sua. Attraverso ogni personaggio, Ultranova è autobiografico. E "Ho vissuto questa storia! tale e quale! Abbiamo tutti vissuto storie come questa! Di un'amica diventata tua confidente che un giorno ti presenta il suo nuovo amico e tu resti annientato!".

Lo preoccupa l'uscita del film? No, è contento di averlo fatto e di vederlo circolare. Quel che conta è che si possa vederlo un po' dappertutto: "Sono più per la policultura estesa piuttosto che per la monocultura intensiva!". Aveva già molti progetti, ma era troppo, alla fine. "Dopo l'uscita del film ho previsto di riposarmi per qualche mese. Questo è un vero lusso, non il denaro, ma di avere il tempo per fare le cose, digerirle, capire cosa è successo. Sono un ruminante.". E prima di concludere: "Mi piace svolazzare, sono nato a maggio, sono molto primaverile!", dice ridendo.

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(Tradotto dal francese)

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