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Signe Baumane • Regista

“Il motivo per cui faccio film è che mi permettono di comunicare”

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- Cineuropa ha parlato con l'animatrice lettone Signe Baumane, che ha recentemente proiettato il suo primo film, Rocks in my Pockets, all'Anima Animated Film Festival di Bruxelles

Signe Baumane  • Regista

Cineuropa ha parlato con l'animatrice lettone Signe Baumane, che ha recentemente proiettato il suo primo film, Rocks in my Pockets [+leggi anche:
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intervista: Signe Baumane
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, all'Anima Animated Film Festival di Bruxelles.

Cineuropa: Nel film, racconta la reale discesa nella depressione della sua famiglia, come della sua del resto – modificando però qualche dettaglio per rendere la storia più drammatica. Come ha deciso cosa modificare e perché?
Signe Baumane:
Se quando racconti una storia ti limiti a narrare solo i fatti realmente accaduti, diventa un resoconto. In veste di narratore non mi preoccupo tanto dei fatti quanto della verità. Il mio punto di vista è la verità soggettiva. Di conseguenza, anche se conosciamo alcuni fatti del film, è più interessante il punto di vista di un determinato personaggio. Quindi alla fine, non sto dicendo che le cose siano andate realmente così, ma che io le ho viste così. Devi cercare di essere soggettivo nel raccontare una storia, perché se si provi ad essere oggettivo, è sicuro che non funzionerà.  Inoltre, se vuoi catturare l’attenzione del pubblico, devi avere un filo conduttore drammatico. Questo significa che potrebbe essere necessario omettere fatti realmente accaduti poiché non sarebbero d’aiuto nell’esprimere le tue intenzioni.

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Esternare tutto questo è stato facile come sembra o ha avuto delle paure o delle difficoltà?
Ho iniziato scrivendo dei diversi modi con cui avrei potuto uccidermi ma sentivo che mancava ancora un filo conduttore drammatico. Così ho deciso di cambiare argomento e parlare della mia famiglia. Una volta iniziato, non riuscivo più a fermarmi. In seguito, il regista con cui stavo lavorando mi ha chiesto di descrivere cosa si provasse ad essere depresso. Inizialmente ho rifiutato, perché pensavo che non importasse a nessuno e che, inoltre, sarebbe stato doloroso per me. A forza di insistere mi ha convinto a fare un tentativo. Così mi sono sforzata a mettere per iscritto cosa si prova ad essere depressi ed è stato davvero difficile e doloroso. Ci sono stati momenti in cui, rileggendo semplicemente, mi veniva un nodo alla gola e iniziavo a tremare. Sono crollata parecchie volte.  Lo stesso è successo durante le riprese, ma alla fine ho imparato a gestire questa situazione.

Film e argomento sono molto complessi, ma il modo in cui racconta la storia e addirittura il tono della sua voce, sono estremamente espressivi e di facile comprensione per chiunque. Perché non c’è nulla di “criptico” nel suo approccio alla depressione?
Ci sarà sempre qualcosa di incomprensibile nella depressione ma il motivo per cui faccio film è che mi permettono di comunicare. Ho fatto del mio meglio nel cercare di descriverla, ma tuttavia solo una piccola parte è comprensibile. Non mi è mai sembrato di riuscire ad esprimerla completamente. Tuttavia, voglio essere chiara e guidare il pubblico affinché non si senta perduto. Ci si sente già persi nella vita, perché dovrebbe succedere anche in un film? Penso che ci siano persone che fanno film per far sì che la gente si perda nella storia, ma non sono quel tipo di regista. Voglio che le persone siano consapevoli di dove sono. È questo il succo della questione, essere capace di raccontare davvero qualcosa.

Cosa ha influenzato il suo stile visivo, non solo in Rocks in My Pockets, ma nella sua produzione in generale?
Beh, per prima cosa l’arte illustrativa dell’Europa dell’est: un’intera tradizione di Paesi come Lituania, Lettonia, Estonia, Ungheria, Repubblica Ceca e persino Germania dell’est. Hanno questa tradizione visiva che si conforma in qualche modo al programma sovietico, ma in modo sovversivo. Guardando attentamente la locandina si può cogliere un velato sarcasmo. Inoltre, usano le metafore visive in modo davvero unico, cosa che li distingue dall’Europa dell’ovest. Un’altra fonte di ispirazione è stato senza dubbio Jan Švankmajer, ma anche un paio di fantastici illustratori: il primo è Stasys Eidrigevičius, da cui ho imparato che non tutte le parole vanno illustrate, ma che si deve creare la propria storia visiva. Il secondo è sicuramente Bill Plympton, perché è stato lui a insegnarmi davvero come girare un film in modo economico e a farmi capire di non temere ad usare l’umorismo. Come tutti gli europei dell’est, a volte sappiamo essere davvero troppo seri.

È stata selezionata come rappresentante della Lettonia alla cerimonia degli Oscar. Cosa ha significato per lei?
In tutta onestà, non penso di aver lavorato per l’Oscar. Se devo essere sincera con me stessa, non avrei mai immaginato che il mio film venisse nominato, perché ho svolto il lavoro in modo diverso. Così, quando la Lettonia ha selezionato il film, sono rimasta davvero sorpresa. Anche se sapevo che il film avrebbe potuto non vincere l’Oscar, volevo che fosse nominato soprattutto per l’effetto che questo avrebbe avuto sul pubblico. Volevo che la gente andasse al cinema per vedere il film! Se questo è l’unico modo per farli venire a vederlo…

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(Tradotto dall'inglese)

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