email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

VENEZIA 2023 Orizzonti

Enrico Maria Artale • Regista di El Paraíso

"Uno dei motivi per cui ho voluto fare questo film è quello di ritrarre un legame forte che può facilmente diventare opprimente"

di 

- VENEZIA 2023: Il regista italiano ci fornisce alcuni dettagli sulla sua storia di formazione che racconta di un complicato rapporto madre-figlio

Enrico Maria Artale • Regista di El Paraíso
(© Matteo Graia)

In questo coming of age fuori tempo massino, intitolato El Paraíso [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Enrico Maria Artale
scheda film
]
, un uomo di quarant'anni (Julio Cesar, interpretato da Edoardo Pesce) cerca di dare un senso al complesso rapporto con la madre (Margarita Rosa De Francisco), con la quale ha vissuto tutta la vita. Il regista italiano Enrico Maria Artale ci racconta il suo lungometraggio, presentato in Orizzonti a Venezia.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Cineuropa: Come ci si sente a essere di nuovo in Orizzonti, dieci anni dopo il suo esordio, Il terzo tempo [+leggi anche:
trailer
scheda film
]
, che era anche un film di finzione?

Enrico Maria Artale: È una sensazione complessa per via della storia che c'è stata in mezzo; ero molto giovane quando sono stato qui con il mio primo film. Ricordo che all'epoca mi dissi: "Ok, voglio che il mio prossimo film sia solo mio", e si rivelò essere il documentario personale sull'incontro con mio padre, Saro [+leggi anche:
trailer
scheda film
]
.

Dove si colloca El Paraíso, tra il primo progetto commissionato e il suo personalissimo secondo film?
Anche El Paraíso è del tutto personale. Non significa che sia autobiografico, ma trae ispirazione dal rapporto che ho avuto con mia madre. In un certo senso, alcuni dicono che questo è il mio secondo film, mentre altri dicono che è il mio terzo.

E lei come lo sente?
Una via di mezzo. Perché un documentario è un lungometraggio, quindi El Paraíso è il mio terzo film. Ma allo stesso tempo, mi sono sempre visto più come un regista di fiction, quindi mi sembra anche un po' il secondo.

La madre di Julio Cesar è colombiana, ma lui non ha mai lasciato Roma. Gli italiani hanno la parola patria, che fa pensare alla disparità di genere in relazione al film.
Sì, patria si riferisce al padre, e si usa quando si parla del proprio Paese, in un modo, diciamo, patriottico, che rimanda immediatamente all'esercito, al nazionalismo e al patriarcato. Quando usiamo madrepatria, è una parola bizzarra che unisce due parole opposte. Mi sono sempre sentito come una specie di rifugiato, anche se sono nato a Roma, ma tutta la mia famiglia viene dalla Sicilia. Quindi per me questo rapporto complicato con la madrepatria è sempre stato quanto meno un motivo per farmi delle domande. E questo è un altro aspetto che mi fa sentire vicino al personaggio di Julius, perché è colombiano, anche se è nato in Italia e non è mai stato in Colombia. È stato uno sfollato prima di nascere.

Ma grazie a sua madre, che parla spagnolo e cucina cibo colombiano, sembra che la Colombia non sia mai abbastanza lontana da lui.
Credo che sia una cosa che ho capito in seguito: uno dei motivi per cui volevo fare questo film era ritrarre un legame forte che può facilmente trasformarsi in qualcosa di opprimente. Se vuoi mantenere questo legame il più possibile idealizzato, devi farlo nel tuo mondo, devi costruire il tuo mondo. Così ho immaginato che questa madre avesse istintivamente costruito una casa e un mondo intorno alla casa, per vivere in una bolla che potesse in qualche modo proteggere questa tranquilla e strana relazione. Non volevo che fosse una prigione evidente, ma è una gabbia dorata.

Il passaggio tra le due lingue nel film è molto naturale.
Sapevo che il film doveva avere una lingua propria, quindi avevo in mente questa immagine, o questo suono, l'immagine del dialetto romano, che ha alcune interessanti somiglianze con lo spagnolo colombiano; ci sono persino alcune parole che sono uguali. Ma la sfida era che nessuno dei quattro attori principali parlava la lingua dell'altro, almeno non prima di iniziare le riprese. Quando la nostra produzione è stata ritardata a causa del Covid, Margarita ha studiato l'italiano per un anno, ma il dialetto romano è una sfida.

Girando in questo modo non si rischiano ripercussioni?
All'inizio volevo improvvisare molto; mi interessano i movimenti, non le parole. Ma poi mi sono reso conto che per loro, e per lei in particolare, le parole erano tutto ciò a cui poteva aggrapparsi. Quindi non voleva cambiare una parola. E all'inizio ho pensato: "Beh, questo renderà il film molto più rigido". Poi mi sono reso conto che potevo usare l'improvvisazione per dare un senso alle sfumature, alle emozioni. Così abbiamo creato molta libertà in questo senso, anche se stavamo seguendo il copione in termini di parole. Dopo le prime due settimane di prove e i primi giorni di riprese, è diventata molto più coraggiosa e, alla fine, è riuscita a improvvisare e a mescolare le due lingue in modo molto libero: una parola in spagnolo, un paio di parole in italiano.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

(Tradotto dall'inglese)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Leggi anche

Privacy Policy