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Alan Gilsenan • Regista

“La storia dietro un film apre gli occhi su una dimensione riparatrice della giustizia”

di 

- Abbiamo parlato con Alan Gilsenan sul suo ultimo lavoro, The Meeting, una finzione basata sulla storia vera di una giovane donna irlandese e del suo incontro con il suo aggressore

Alan Gilsenan  • Regista

Il talentuoso regista cinematografico e teatrale irlandese Alan Gilsenan ci parla del suo ultimo film, The Meeting [+leggi anche:
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. Prodotto da Tomás Hardiman, il lavoro di Gilsenan si focalizza su temi controversi e provocatori, di recente è stato presentato al Festival internazionale del film Audi di Dublino che si è concluso il 4 marzo.

Cineuropa: Ci può descrivere brevemente la trama di The Meeting?
Alan Gilsenan: The Meeting s’ispira ad una storia vera. Rappresenta l’incontro tra una giovane donna irlandese, violentata in un sobborgo di Dublino, e il suo aggressore dopo che lui ha scontato la sua pena in prigione. Dopo dieci anni di sofferenza, depressione e ansia, la donna in questione sente che potrebbe trovare pace solo se riuscisse ad affrontare il suo ”mostro” e conoscerlo come persona. 

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Come ha avuto quest’idea? Perché ha deciso di toccare un argomento così fortemente emotivo come quello della violenza sessuale?
L’idea è nata in seguito a una serie di discorsi che sono emersi da un altro mio film che ho realizzato precedentemente con lo stesso produttore, Tomás Hardiman, su Ivor Browne, lo psichiatra radicale. Tali discorsi hanno portato a dei dibattiti sul perdono e sulla giustizia riparatrice. Ed è stato allora che ho sentito l’incredibile storia di questo incontro, e subito, mi sono lanciato nella realizzazione di un cortometraggio radicale basato quasi interamente sulle ferite rimaste aperte durante questo intenso ma breve periodo di tempo.

The Meeting apre nuove prospettive su questi problemi? E in qualche modo sensibilizza l’opinione pubblica? Se sì, perché?
Onestamente, devo dire che ho sempre rifiutato l’idea che un film trattasse problemi di questo genere – anche se, certamente, ciò che lei dice è spesso vero. I “problemi” tendono a coprire l’intrinseca natura della storia, possono ridurre la complessità, l’ambiguità e il mistero dell’esperienza umana. Secondo me, “i problemi” sono roba da attualità e da giornalismo, non da produzione cinematografica. Ma penso che la storia dietro il film apra gli occhi sull’idea di giustizia riparatrice – una nuova prospettiva sulla giustizia e sui reati sessuali, soprattutto, una nozione che è diventata molto dibattuta e difficile da gestire nella società di oggi.

Quanto tempo ha lavorato su The Meeting? Quali sono le difficoltà di tipo creativo che ha incontrato?
Come ho accennato prima, per il film tutto è accaduto velocemente ed è stata una cosa positiva perché non è stato un progetto insolito. La realizzazione di un film può richiedere anni. Questo lo abbiamo realizzato rapidamente, e anche se è stato enormemente difficile e abbiamo scelto un argomento delicato. Sotto diversi punti di vista è stato un film molto facile da realizzare, soprattutto perché la protagonista principale – la donna sulla quale si basa l’intera storia del film – ha voluto davvero condividere la sua esperienza. E’ una donna davvero eccezionale, composta, determinata e, più di tutto, generosa d’animo.

Potrebbe parlarci del suo staff? Come l’hanno aiutata nella realizzazione di questo lavoro?
E’ un cliché per i registi dire che il film è un’arte collaborativa, ma certamente, è tutto vero. Ho avuto la fortuna di lavorare con una cara amica nonché mia collaboratrice, la montatrice cinematografica, Emer Reynolds che di recente ha avuto un enorme successo come regista con The Farthest [+leggi anche:
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, ha portato rigore e minuziosità a quello che è stato un montaggio molto difficile, e il nostro direttore della fotografia, Colm Hogan, e il suo intero staff di riprese sono stati davvero fantastici. E’ stato un progetto così intenso e personale, mi è sembrato importante riunire un piccolo team di persone che la pensasse allo stesso modo e che fosse interessato alla delicatezza del lavoro. Quindi, in qualche modo, è stata molto simile ad un’esperienza teatrale. I brani sono stati composti da una band fantastica che si chiama Cloud Castle Lake. Hanno dato una dimensione diversa alla produzione, e certamente, durante tutto il processo, il produttore, Tomás Hardiman ha guidato il tutto con cura e con autentica integrità.

Questo film sembra abbattere le frontiere tra il documentario e la finzione, poiché la protagonista, Ailbhe Griffith, ritrae se stessa e rivive il proprio dramma. Perché questa scelta?
Ho sempre precisato che il film fosse un dramma e non un documentario, anche se si basa rigorosamente su eventi reali. Ero consapevole che scritturare Ailbhe fosse davvero un rischio, ed è stato un rischio al quale ho resistito a lungo. Ma in qualche modo, era lei l’unica persona a saper recitare la parte in maniera convincente. Probabilmente non è del tutto vero, ma spero che lei dia al film una dimensione complessa e potente. 

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(Tradotto dall'inglese da Francesca Miriam Chiara Leonardi)

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